God of War

Il mio libro di Assassin's Creed II

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Kratos9
view post Posted on 17/3/2010, 17:08




Posterò in questa discussione il mio libro su Assassin's Creed 2 . Leggetelo e commentatelo. Oggi posto il capitolo 1 e 2

Assassin’s Creed II

Capitolo 1: Ricordi

Mi risvegliai nel bel mezzo della notte nella mia camera. Con la mente rividi tutti i segni lasciati dal Soggetto precedente, il 16. Il numero 17 non mi aveva mai portato fortuna. E’ una lunga storia.
Ad un certo punto la porta si aprì e vidi arrivare Lucy, sporca, imbrattata di sangue, che mi disse: - Desmond, torna immediatamente nell’Animus, e non fare domande. Dopo ti spiego. – con la sua voce argentina. Se fosse stato Vidic, gli avrei probabilmente mollato un sonoro cazzotto sul naso, ma la voce dolce di Lucy Stillman mi persuase a tal punto da correre all’Animus. Le scritte di menu cambiarono; in sovraimpressione comparì la dicitura:
Soggetto 16 Rilevazione dati in comune Soggetto 17 Confidenziale Desmond Miles

Alla fine, dopo circa due minuti buoni, si aprì la schermata del ricordo, che enunciava la nascita di un certo Ezio Auditore. Una donna mora, con i capelli lungi e con una lunga gonna bianca, stava partorendo, con accanto due levatrici, che la consolavano melensamente, ed urlava a più non posso. Cazzo, come urlava. Dopo innumerevoli sforzi, che non posso descrivere se non con delle parolacce inappropriate, il bambino uscì. Era un bel bambino rosso e con pochi capelli. Allora la porta si aprì ed entrò un uomo anziano, sui cinquanta anni, moro, e prese il bambino in braccio, dicendo: - Amore mio, quando mi avvertirono ero in banca di Lorenzo. Dai a me il bambino, Gaia. – disse vedendo il bambino – Tu sei un combattente, sei un Auditore, quindi combatti! – riferito al figlio. Poi, vedendo i movimenti del piccolo aggiunse come esaltato: - Ecco qui Ezio, Ezio Auditore da Firenze. –
Venni scaraventato nel mio tempo e svegliato dalla suadente voce di Lucy che, solo ora, aveva un tono allarmato. Aprì la porta del laboratorio, che avevo visto per l’ultima volta quando avevo visto uscire dalla Abstergo il Dottore Warren Vidic, un bastardo di prima categoria. Lucy corse alla porta più vicina, ma il suo fare grossolano venne notato da due guardie della Abstergo, che fecero suonare l’allarme e, aperta la porta di vetro che ci separava da loro, ci corsero addosso. Con un’agilità che non riconobbi, Lucy strappò alla guardia più vicina il pungolo elettrico e assalì con quello le due sentinelle, mettendole K.O. Aperta la porta, entrammo in un ascensore e io chiesi a Lucy,con il mio solito sarcasmo: - Non penso che Vidic faccia i salti di gioia vedendoci. - E lei di rimando : - Come credi che io abbia sostituito le mie incursioni notturne??? Mettendo registrazioni vecchie nelle telecamere. Non sono l’assistente santarellina che crede Vidic. - Apertasi la porta dell’ascensore, ci ritrovammo in una sala rettangolare, dalle pareti argento pallido della mia stessa stanza e del laboratorio dove sono stato costretto a rivivere in Altair. E davanti a me, piccole celle quadrate, con al centro lo strumento più infernale che Dio possa aver creato: Animus. Erano milioni, ma che dico, centinaia di milioni. E pensare che sarebbero potuti servire per torturare altri come me, dalle vite sconvolte. Detto questo, solo un pensiero mi balenò in mente. I Templari devono crepare tutti. Lucy mi guardò con pena, forse, e mi sussurrò: - Stammi dietro ed evita le guardie, ok? – Io annuii lentamente e lei, con un movimento del capo, mi fece cenno di seguirla. Presi un bel respiro e corsi dall’altra parte della sala, attraversando corridoi di Animus con le lacrime agli occhi e la paura di essere scoperto nel cuore. Quando fui arrivato dalla parte opposta della stanza, sentii Lucy imprecare violentemente: - Porca puttana, il codice di accesso è cambiato. E ora? - con aria interrogativa.

A questo punto vidi impresse sul tastierino numerico quattro impronte rosse sangue, impresse sui numeri 4 – 9 – 1 – 6. Digitai la combinazione 4916 e non funzionò; feci cilecca anche con i numeri 4196, ma riuscii a trovare il codice con 9614. Allora capii cosa era stato a darmi quell’aiuto fortuito: l’Occhio dell’Aquila, una principale abilità di Altair, l’Assassino Nizarita mio lontano antenato. Ma l’abilità era di Altair, non mia. Stava succedendo qualcosa di strano, cazzo. E dovevo riuscire a capirlo, per il mio bene e per quello di Lucy. Cominciavo a diventare anche io pazzo come il Soggetto 16? Mi suiciderò anche io? Ad ogni modo, Lucy si stupì in viso, ma non mi chiese niente e camminò nel parcheggio. Una volta giunti nel nuovo ambiente, vidi distintamente che un gruppo di sentinelle era stanziato vicino un fuoristrada nero a righe rosse. Le guardie ci notarono e ci corsero dietro immediatamente. Mentre Lucy dava sfogo alla sua violenza repressa, io mi nascondevo dietro una Ford Focus. Dopo la sfuriata sanguinolenta, vidi Lucy correre verso quel fuoristrada e io passasi vicino le guardie, ora distese carponi in una pozza di sangue, agonizzanti. Raggiunta Lucy, lei mi disse di salire nel bagagliaio e, dopo essermici ficcato, ingranò la prima e partì a tutta birra. Stanco di tutte quelle emozioni in una volta sola e carico di domande, ma attenuato da quel “ Ti spiegherò tutto “, mi addormentai.
Capitolo 2 - Baby
Lucy aprì violentemente il bagagliaio, intimandomi di essere svelto a scendere e dicendo: – L’Abstergo non tarderà a cercarci, perciò sbrigati. – con una voce dura e calma, pacata ed irascibile allo stesso tempo. Davanti a me c’era lo scenario, si fa per dire, di un vecchio magazzino. C’erano vecchie scatole marrone ebano impilate su grandi carrelli color ruggine. In alto, delle scale permettevano di raggiungere un piccolo vano dalle pareti rosso sangue. Lucy mi guidò attraverso le scale dicendomi : - Seguimi. – Io lo feci e chiesi : - Perché mi hai portato qui? -. A sua volta mi rispose: - Dobbiamo addestrarti, Desmond. - - Cosa vuol dire addestrarmi??? Mi hai visto nel parcheggio, non so combattere, sprecheresti tempo . - - Non con l’effetto osmosi. – disse con uno strano luccichio negli occhi. - L’effetto che??? – risposi. - L’effetto osmosi è una reazione collaterale data alla troppa esposizione all’Animus, Desmond. - - Cioè??? – chiesi con aria interrogativa. – Ti terremmo a contatto col tuo antenato, Ezio Auditore da Firenze,e così imparerai le sua abilità, molto superiori a quelle di Altair. – concluse. A questo punto, un po’ stupito, chiesi a Lucy: - Mi hai portato qui solo per farmi diventare un Assassino? Come i miei antenati??? Mi manderai ad uccidere i Templari come loro? –
Poi aggiunsi: - Accetto. Dopo tutto quello che mi hanno fatto passare questi bastardi sono pronto, motivato e deciso. - Vedendomi così determinato, dagli occhi di Lucy uscì una lacrima furtiva, nascosta,appassionata, dolce, umana. Mi abbracciò e poi mi guidò verso una porta color Montgomery, che si aprì all’istante. Una volta entrato dentro, vidi un ambiente nuovo, totalmente diverso dal grigiume che c'era all’Abstergo. Le pareti erano dello stesso colore della porta ed erano tappezzate di quadri antichi, strani simboli e qualcosa simile ad un panino con la maionese troneggiava su una sedia rossa fuoco. Poi, d’un tratto, vidi arrivare verso di me una ragazza dai lunghi capelli corvini col viso magro, due begli occhi neri, una quarta bella e buona, che corse incontro a Lucy, esclamando: - Sei tornata! – con un bel sorriso sulle labbra. Altrettanto contenta , Lucy ricambiò: - In fondo sono passati solo 7 anni, Rebecca. – A Lucy si avvicinò un uomo sulla mezza età, coi capelli biondi, occhiali dalla montatura nera ed una felpa bianca che mormorò dolcemente: - Bentornata davvero, Lucy – Solo allora mi guardarono, come improvvisamente accorti della mia presenza, e mi dissero molto lentamente, come per misurare bene le parole: - Soggetto 17? Desmond Miles, giusto? - A questo punto strinsi loro la mano e Lucy estrasse un piccolo quadratino grigio, un chip a prima vista, dicendo : - Desmond, questi due sono Rebecca Crane e Shaun Hastings due nostri alleati. Rebecca, ti porto un regalino di commiato dall’Abstergo. – mentre rideva.
- Wow! Il nucleo di memoria! Con il flusso dati, le cose si semplificheranno ed andremo a tutta birra! Grazie di cuore, Lucy. – disse Rebecca con le lacrime agli occhi. Shaun passò alla chetichella a prendere il panino sulla sedia rossa e Rebecca esclamò: - Cristo, Shaun! Non rovinarmi Baby. – Io incuriosito più che mai chiesi: - Cos’è Baby? – e Rebecca di rimando: - L’Animus 2.0. Qualunque cosa possegga l’Abstergo io la ho, ma 100 volte meglio di loro. I templari, pur essendo ricchi non hanno alcuna ambizione, passione o competitività. Senza offesa Lucy. – ridacchiando all’ultima frase. Poi mi incamminai verso la postazione di quel tipo, Shaun, e gli chiesi cosa stesse facendo con quei grafici e quelle cartelle che solo a vederle mi davano l’emicrania. Lui rispose: - Questa roba è ciò che permette alla nostra operazione di non andare a puttane, Desmond. Non solo, svolgo anche una sorta di biblioteca digitale, un archivio, e quando sarai nell’Animus ti segnalerò tutti gli eventi, le persone ed i luoghi importanti, per aiutarti. Inoltre svolgo supporto tattico a gli Assassini fuori, quelli che operano sul campo e che non usano Animus. -. Sottolineò l’ultima frase come a farmelo rimpiangere. Rebecca interruppe il mio ragionamento comunicandomi che l’Animus 2.0. o Baby, come lo chiamava lei, era pronto per partire. Mi sedetti con calma e notai che era molto più confortevole di quella macchina infernale dell’Abstergo. Rebecca si avvicinò a me e mi fece una puntura con una siringa contenete liquido giallo senape. Alla mia imprecazione, Lucy rimproverò Shaun per la risata sommessa ma forte. Allora l’Animus partì e mi sentii strano, quasi euforico. Non ero più Altair, ora ero Ezio Auditore, una persona totalmente nuova. Pensai seriamente di essere a casa. Una voce metallica mi colse di sorpresa, dicendo: - Sequenza 1: Beata Ignoranza - .
Desmond si immerse nell’aria di una città a prima vista allegra ed iniziò questa nuova avventura. Alte sulle torri di Palazzo Vecchio e del Bargello brillavano e guizzavano le torce e poco distante a nord, nella piazza della cattedrale, luccicavano alcune lanterne. Altre illuminavano le banchine lungo le rive dell’Arno dove, nel buio, si scorgevano, a tarda ora per una città in cui la maggior parte degli abitanti si chiudeva in casa all’arrivo della sera, dei marinai e degli stivatori. Alcuni marinai, ancora impegnati con le navi e le barche, si sbrigavano con le ultime riparazioni al sartiame e avvolgevano ordinatamente le funi sul ponte scuro e lavato, mentre gli stivatori si affrettavano a portare il carico al sicuro nei vicini magazzini. Si vedevano barlumi di luce anche nelle vinerie e nei bordelli, ma pochissime persone percorrevano le strade. Erano passati sette anni da quando Lorenzo de’ Medici, allora ventenne, era stato eletto a capo della città e aveva portato un senso di ordine e pace nell’intensa rivalità tra le grandi famiglie di banchieri e mercanti che avevano reso Firenze uno dei luoghi più ricchi del mondo. Ciononostante, la città non aveva mai smesso di sobbollire e di tanto in tanto di traboccare, nella incessante lotta delle varie fazioni per la conquista del potere, tra l’implacabile antagonismo di alcune e l’opportunistica volubilità di altre.
Nell’anno del Signore 1476, neppure in una serata primaverile dal dolce profumo di gelsomino, quando si poteva quasi dimenticare il puzzo che proveniva dall’Arno se il vento soffiava nella giusta direzione, Firenze era il luogo più sicuro per starsene fuori casa dopo il tramonto. La luna era salita alta in un cielo color cobalto, spadroneggiando su una moltitudine di stelle. La sua luce cadeva sulla piazza dove il Ponte Vecchio, con le botteghe ora buie e silenziose, toccava la sponda settentrionale del fiume. Contro il cielo luminoso si stagliò una sagoma vestita di nero, in piedi sul tetto della chiesa di Santo Stefano al Ponte. Un giovane di soli diciassette anni, ma alto e fiero, che, dopo aver scrutato il quartiere sottostante, si portò una mano alle labbra e fischiò, un suono basso ma penetrante. In risposta, dal buio delle strade e degli archi emersero nella piazza prima uno, poi tre, poi una decina e infine venti giovani come lui, in gran parte vestiti di nero, alcuni con cappelli o cappucci rosso sangue, verdi o azzurri, tutti con le spade e i pugnali alla cintura.







La banda dall’aspetto minaccioso si allargò a ventaglio, un’arrogante sicurezza nei movimenti. Dall’alto il giovane guardò i loro visi ansiosi, pallidi nella luce della luna, rivolti verso di lui. Alzò il pugno sopra la testa in un saluto spavaldo. «Siamo uniti!» gridò, e gli altri levarono i pugni o sguainarono e brandirono le loro armi, urlando: «Uniti!» Il giovane scese come un gatto lungo la facciata non ancora completata nel portico della chiesa, da dove, con un balzo e il mantello svolazzante, atterrò, accovacciato, tra loro. Gli amici si raccolsero attorno a lui, impazienti. «Silenzio, amici miei!» Sollevò una mano per bloccare un ultimo, solitario grido. Sorrise cupamente. «Sapete, miei più stretti alleati, perché vi ho convocati qui stasera? Per chiedere il vostro aiuto.
Sono rimasto troppo a lungo in silenzio, mentre il nostro nemico, e sapete chi intendo, Vieri de’ Pazzi, se
ne va in giro per la città diffamando la mia famiglia, infangandone il nome e tentando nel suo patetico modo di umiliarci. Di norma non mi abbasserei a prendere a calci un simile cane rognoso, ma...» Venne interrotto da una grossa e frastagliata pietra che, lanciata dalla parte del fiume, era caduta ai suoi piedi. «Smettila di dire scemenze, grullo», urlò una voce. Il giovane, che aveva già capito a chi apparteneva, e i suoi amici si voltarono all’unisono verso la voce. Un’altra banda di giovani stava attraversando il ponte dalla riva meridionale. Il capo avanzava impettito alla testa del gruppo, una mantella rossa tenuta chiusa da un fermaglio a forma di delfini e croci dorati in campo azzurro sopra un abito di velluto scuro, la mano sul pomello della spada. Era un uomo abbastanza bello, ma il suo aspetto era sciupato da una bocca crudele e da un mento debole e, sebbene grassoccio, la potenza delle braccia e delle gambe era indubbia.
«Buona sera, Vieri», lo salutò il giovane. «Stavamo giusto parlando di te.» S’inchinò con esagerata cortesia e con finta sorpresa. «Ma devi perdonarmi. Non ti aspettavamo di persona. Credevo che i Pazzi lasciassero fare i lavori sporchi ai loro tirapiedi.» Vieri si rizzò, fermandosi con la sua truppa a pochi metri di distanza. «Ezio Auditore! Marmocchio viziato! Direi che è piuttosto la tua famiglia di scribacchini e ragionieri quella che corre dalle guardie al minimo segno di difficoltà. Codardo! » Strinse l’impugnatura della spada. «Direi che siete voi ad avere paura di occuparvi di persona dei problemi.» «Ecco, che posso dire, ciccione di un Vieri. L’ultima volta che l’ho vista, tua sorella Viola sembrava soddisfatta per il trattamento che le ho riservato.» Ezio Auditore sfoderò un largo sorriso al nemico, compiaciuto nel sentire i suoi compagni sogghignare e applaudire alle sue spalle. Si era tuttavia accorto di avere esagerato. Vieri era rosso di rabbia. «Questo è troppo, Ezio, piccolo miserabile! Vediamo se sai combattere bene come parli!» Voltò la testa verso i suoi uomini, alzando la spada. «Uccidete i bastardi!» gridò. Di colpo un’altra pietra volò nell’aria, ma questa volta non era stata lanciata per sfida. Colpì Ezio sulla fronte, facendolo sanguinare. Barcollò per un attimo all’indietro, mentre i seguaci di Vieri lanciavano una gragnola di sassi. I compagni di Ezio ebbero appena il tempo di organizzarsi, che la banda dei Pazzi era su di loro. Di colpo la zuffa si trasformò in una lotta corpo a corpo e all’inizio non vi fu quasi il tempo di estrarre le spade né i pugnali, così le due bande si affrontarono a mani nude. La battaglia fu dura e accanita, calci e pugni brutali e il rumore disgustoso di ossa scricchiolanti. Per un po’ sarebbe potuta finire a favore degli uni come degli altri, poi Ezio, la vista leggermente offuscata dal sangue che gli colava dalla fronte, vide due dei suoi uomini migliori barcollare e cadere a terra e i picchiatori dei Pazzi pronti a calpestarli. Vieri rise e tirò un pugno in testa a Ezio con la mano che stringeva una pesante pietra. Ezio si abbassò e il colpo mancò il bersaglio, ma era arrivato pericolosamente vicino e la fazione di Auditore stava avendo la peggio. Prima di rimettersi in piedi, Ezio riuscì a estrarre il pugnale e a colpire alla coscia uno dei sicari dei Pazzi che incombeva su di lui con la spada e il pugnale sguainati. L’arma di Ezio trapassò la stoffa e si conficcò nel muscolo e nel tendine; l’uomo lanciò un urlo angosciato e crollò, lasciando cadere le armi e stringendosi con entrambe le mani la ferita da cui il sangue sgorgava a fiotti. Rimettendosi in piedi a fatica, Ezio si guardò in giro e vide che i Pazzi avevano circondato i suoi uomini, intrappolandoli contro uno dei muri della chiesa. Sentendosi di nuovo in forza, corse verso i suoi compagni. Abbassandosi sotto la grande lama di un altro degli scagnozzi dei Pazzi, riuscì a colpire con un pugno il mento ispido dell’uomo ed ebbe la soddisfazione di vedere volare dei denti, mentre il mancato assalitore cadeva in ginocchio, intontito dal colpo. Gridò ai suoi per incoraggiarli, ma in verità stava pensando a come battere in ritirata con la massima dignità possibile, quando, più forte del rumore della zuffa, sentì una voce allegra e molto familiare chiamarlo da dietro la cricca dei Pazzi. «Ehi, fratellino, che diavolo stai combinando?» Il cuore di Ezio batté forte per il sollievo e gli riuscì di esalare un: «Federico! Che cosa fai qui? Credevo stessi facendo scemenze come al tuo solito!» «Scemenze! Sapevo che avevi in animo qualcosa e ho pensato di passare a vedere se il mio fratellino aveva infine imparato a badare a se stesso. Ma forse hai bisogno di un’altra lezione?»
Federico Auditore, di alcuni anni più vecchio di Ezio, il maggiore dei fratelli Auditore, era un uomo grande e grosso, con un incontenibile appetito per il bere, l’amore e la lotta. Continuando a parlare, si gettò nella mischia, sbatté tra loro le teste di due Pazzi e alzò il piede per colpire il mento di un terzo, poi si accostò al fratello, indifferente alla violenza che lo circondava. I compagni, rincuorati, raddoppiarono i loro sforzi mentre l’azione dei nemici si faceva meno convinta. Alcuni dei manovali del cantiere navale si erano radunati a guardare a una distanza di sicurezza e, nella penombra, il gruppo dei Pazzi li scambiò per rinforzi degli Auditore. Questo e le urla e i pugni di Federico, rapidamente imitati da Ezio, che imparava alla svelta, li gettarono nel panico.
L’urlo furibondo di Vieri de’ Pazzi si levò sopra il tumulto generale. «Ritiratevi!» gridò ai suoi uomini, la voce rotta dall’ira e dallo sforzo. Incrociò lo sguardo di Ezio e abbaiò una confusa minaccia prima di sparire nell’oscurità riattraversando il Ponte Vecchio, seguito dagli uomini che ancora riuscivano a camminare e incalzato dai trionfanti alleati di Ezio. Ezio stava per imitarli, ma la grossa mano del fratello lo trattenne. «Solo un minuto», lo fermò. «Che intendi? Li abbiamo messi in fuga!» «Calma.» Federico, accigliato, gli toccò delicatamente la fronte. «È solo un graffio.» «No, è qualcosa di più», decise il fratello, serio in volto. «Sarà meglio portarti da un medico.» Ezio sputò. «Non ho tempo da perdere con i dottori. Inoltre...» S’interruppe con fare mesto. «Non ho soldi.» «Aha! Sprecati con le donne e il vino, immagino.» Federico
sorrise e calò una pacca affettuosa sulla spalla del fratello. «Non direi sprecati. E chi mi fa da esempio, poi.» Ezio sorrise, ma poi esitò, rendendosi improvvisamente conto che la testa gli pulsava. «Forse non sarebbe un male farla vedere. Immagino non ti sia possibile prestarmi alcuni fiorini?» Federico diede un colpetto al borsellino che non tintinnò. «Il fatto è che in questo momento anch’io sono a corto di denaro », replicò. Ezio sorrise all’aria imbarazzata del fratello. «E in che cosa l’avresti sprecato? In messe e indulgenze, immagino?» Federico scoppiò a ridere. «D’accordo, ho capito.» Si guardò in giro. Alla fin fine, solo tre o quattro dei suoi erano stati feriti tanto gravemente da restare sul campo di battaglia e ora si erano messi seduti e si lamentavano, ma stavano anche ridendo. Era stata una dura colluttazione, ma nessuno era finito con le ossa rotte. Dell’altra fazione, invece, almeno sei scagnozzi erano fuori combattimento e un paio di loro indossava abiti costosi. «Vediamo se i nostri nemici caduti hanno ricchezze da condividere», suggerì Federico. «Dopotutto, ne abbiamo bisogno più noi di loro e scommetto che potrai alleggerirli senza svegliarli.»
«Vedremo», replicò Ezio e si diede da fare con successo. Nel giro di pochi minuti raccolse un numero sufficiente di monete da riempire i loro borselli. Ezio lanciò un’occhiata trionfante al fratello e fece tintinnare il bottino per sottolineare la sua gioia. «Basta così!» gridò Federico. «Meglio lasciare loro qualcosa per tornare a casa. Dopotutto non siamo ladri, è solo il bottino di guerra. Comunque quella ferita continua a non piacermi. Dobbiamo farla esaminare alla svelta.» Ezio annuì e si voltò per controllare un’ultima volta il campo della vittoria degli Auditore. Persa la pazienza, Federico pose una mano sulla spalla del fratello minore. «Forza», lo esortò e senza indugiare oltre si avviò tanto rapidamente che
Ezio, esausto, fece fatica a tenergli il passo. Ma quando restava troppo indietro o svoltava in una direzione sbagliata, Federico si fermava o correva a rimetterlo sulla via giusta. «Scusami, Ezio. Voglio solo arrivare dal medico il più presto possibile.» Di fatto non era molto distante, ma Ezio si stava stancando sempre più. Finalmente raggiunsero il laboratorio del loro medico di famiglia, una stanza poco illuminata, occupata da strumenti misteriosi e fiale in vetro e ottone, allineati su scuri tavoli in legno di quercia e appesi al soffitto assieme a mazzi di erbe disidratate. A stento Ezio riusciva a tenersi in piedi. Il dottor Ceresa non era affatto felice di essere stato svegliato nel bel mezzo della notte, ma appena ebbe avvicinato una candela al viso di Ezio, il suo atteggiamento passò da stizzito a preoccupato. «Ehm», borbottò. «Avete fatto un bel macello questa volta, giovanotto. Non riuscite a inventare nulla di meglio che picchiarvi in continuazione?»
«Era una questione d’onore, caro dottore», lo giustificò Federico.
«Capisco», replicò il medico con calma. «Non è nulla», borbottò Ezio, pur sentendosi svenire. Federico, celando come al solito l’ansia dietro l’umorismo, disse: «Rappezzatelo al meglio, amico. Quel suo bel visino è la sua unica risorsa». «Fottiti», ribatté Ezio, mostrando il dito medio al fratello. Il dottore li ignorò, si lavò le mani, esaminò delicatamente la ferita e versò del liquido trasparente da una delle sue numerose
ampolle su un pezzo di stoffa con cui picchiettò leggermente la fronte del paziente. Ezio balzò quasi dalla sedia, il viso contorto dal dolore. Infine, ben pulito il taglio, il dottore prese un ago e vi infilò un sottile filo per suture. «Questo farà un po’ male», avvertì. Una volta suturata e bendata la ferita Ezio assomigliava a un turco con il turbante e il medico gli rivolse un sorriso di incoraggiamento.
Allora il medico, dalla maschera, disse: «Sono tre fiorini, per ora. Tra pochi giorni verrò a casa vostra per rimuovere i punti. Allora dovrete darmi altri tre fiorini. Avrete un tremendo mal di testa, ma passerà. Cercate soltanto di riposare, se la vostra indole ve lo permette! E non preoccupatevi: la ferita pare più brutta di quanto sia, inoltre non dovrebbe rimanere alcuna cicatrice, così che in futuro non deluderete troppo le signore!»

Una volta scesi in strada, Federico cinse con un braccio il fratello minore, poi tirò fuori una fiaschetta e gliela porse. «Non preoccuparti», disse, notando l’espressione sul volto di Ezio. «È la miglior grappa di nostro padre. Meglio del latte di madre per un uomo nel tuo stato.» Bevvero entrambi, e l’infuocato liquido li riscaldò. «Che notte!» esclamò Federico. «Davvero. Vorrei solo che fossero tutte divertenti come...»
Ezio s’interruppe nel vedere che il fratello cominciava a sorridere da orecchio a orecchio. «Oh, aspetta!» si corresse ridendo. «Lo sono!»
«Comunque, un po’ di cibo e del vino riuscirebbero a sistemarti prima di tornare a casa», replicò Federico. «È tardi, lo so, ma qui vicino c’è una taverna che non chiude prima dell’ora di colazione e...» «...tu e l’oste siete amici intimi?» «Come hai fatto a indovinare?» Un’ora o poco più tardi, dopo un pasto a base di ribollita e bistecca annaffiato con una bottiglia di vino di Montepulciano, Ezio si sentiva come se non fosse mai stato ferito. Era giovane e in forma e aveva l’impressione di aver recuperato tutta l’energia persa nella battaglia. L’adrenalina della vittoria sulla banda dei Pazzi aveva di certo contribuito alla rapidità
della guarigione. «È ora di tornare a casa, fratellino», decise Federico.
«Nostro padre si starà chiedendo dove siamo e sei tu quello cui si rivolge per aiutarlo in banca. Fortunatamente per me, non ho stoffa per la matematica, ecco perché non vede l’ora che entri in politica!»
«In politica o nel circo, per come ti comporti.» «Qual è la differenza?» Ezio sapeva che il fratello non provava alcun malanimo nei suoi confronti per il fatto che il padre si fidava più di lui che di Federico per quello che riguardava gli affari di famiglia. Federico sarebbe morto di noia, se avesse dovuto affrontare una vita in banca. Il guaio era che Ezio aveva la sensazione che per lui sarebbe stato lo stesso. Per il momento, tuttavia, il giorno in cui avrebbe dovuto indossare l’abito in velluto nero e la catena d’oro del banchiere fiorentino era ancora lontano ed era deciso a godere appieno di quel periodo di libertà e incoscienza. Non poteva certo immaginare quanto breve sarebbe stato. «Faremmo meglio ad affrettarci», stava dicendo Federico, «se vogliamo evitare una paternale.» «Potrebbe essere preoccupato.» «No, sa che sappiamo badare a noi stessi.» Federico stava fissando Ezio con un’espressione meditabonda. «Ma faremmo meglio a muoverci.» S’interruppe. «Te la senti di fare una scommessa? Una corsa?» «Dove?»
«Vediamo un po’.» Federico guardò verso un campanile non troppo lontano. «Il campanile della chiesa di Santa Trinità. Se non è troppo per te, e poi non è distante da casa. Ma c’è un’altra cosa.»
«Sì?»
«Non correremo lungo le strade, ma sui tetti.» Ezio trasse un profondo respiro. «D’accordo. Mettimi alla prova.» «Bene, piccola tartaruga... via!» Senza dire un’altra parola, Federico si lanciò a scalare una
parete a intonaco grezzo con la facilità di una lucertola. Si fermò in cima, dove parve barcollare tra le rosse tegole bombate, rise e ripartì. Quando Ezio raggiunse il tetto, suo fratello era ormai a circa venti metri di distanza. Il giovane si lanciò al suo inseguimento, ignaro del dolore nell’eccitamento alimentato dall’adrenalina della caccia. Poi vide Federico saltare un vuoto nero pece e atterrare con leggerezza sul tetto piatto di un grigio palazzo un poco più basso di quello da cui era partito. Federico corse ancora un poco, poi si fermò. Ezio provò un brivido di paura quando gli apparve l’abisso della strada sotto di sé, ma sapeva che sarebbe morto piuttosto che esitare davanti al fratello e così fece appello a tutto il suo coraggio e alla sua fiducia in se stesso e saltò; mentre volava, vide, illuminata dalla luna, la pavimentazione in granito duro lontanissima dai suoi piedi che frustavano l’aria. Per mezzo secondo, nel vedere la parete grigia del palazzo venirgli incontro sempre più alta, si chiese se avesse stimato bene la distanza, ma poi, in qualche modo, la parete si abbassò e lui si ritrovò sul tetto, leggermente scomposto, ma ancora in piedi ed euforico, anche se senza fiato. «Il mio fratellino ha ancora molto da imparare», lo schernì.
Federico, ripartendo, un’ombra sfrecciante tra i comignoli sotto le nuvole sparse. Ezio si lanciò in avanti, perso nella sfrenatezza del momento. Altri abissi si spalancarono sotto di lui, alcuni mostrando vicoli, altri ampie strade. Federico era scomparso.
All’improvviso il campanile della chiesa di Santa Trinità si innalzò davanti a lui, emergendo dalla rossa distesa del tetto leggermente inclinato dell’edificio. Avvicinandosi,ricordò che la chiesa era situata nel centro della piazza e che la distanza tra quel tetto e quello dei palazzi attorno era molto più ampia di qualsiasi altra avesse già saltato.

Non osò esitare o perdere velocità, la sua unica speranza era che il tetto della chiesa fosse più basso di quello da cui avrebbe dovuto saltare. Se fosse riuscito a lanciarsi in aria con sufficiente forza, la gravità avrebbe fatto il resto. Per uno o due secondi avrebbe volato come un uccello. Scacciò dalla mente ogni pensiero sulle conseguenze di un fallimento.
Il bordo del tetto si avvicinava rapidamente, e poi, il nulla. Volò, gli occhi colmi di lacrime, il fischio dell’aria nelle orecchie. Il tetto della chiesa sembrava lontanissimo, non l’avrebbe mai raggiunto, non avrebbe più riso né lottato né tenuto una donna tra le braccia. Non riusciva a respirare. Chiuse gli occhi e poi...
Il suo corpo si piegò in due, ritrovò l’equilibrio con le mani e i piedi, che comunque erano nuovamente ben appoggiati; ce l’aveva fatta, anche se solo a pochi centimetri dal bordo, era riuscito a raggiungere il tetto della chiesa! Ma dov’era Federico? S’inerpicò fino alla base del campanile e si voltò a guardare da dove era venuto appena in tempo per vedere suo fratello volare in aria. Federico atterrò saldamente, ma il suo peso smosse alcune tegole di argilla rossa e perse quasi l’appiglio, mentre i coppi scivolavano lungo il tetto e cadevano oltre il bordo, frantumandosi pochi secondi dopo sul granito duro della pavimentazione della piazza. Federico, ritrovato l’equilibrio, si alzò in piedi, ansimando, ma con un grande sorriso orgoglioso sulle labbra. «Allora, non proprio una tartaruga», esclamò, avvicinandosi a Ezio e battendogli la spalla. «Mi hai superato come un fulmine.»
«Non m’ero neppure accorto di averti sorpassato», ammise Ezio, cercando di riprendere fiato. «Ma in cima al campanile non arriverai prima di me», replicò Federico, spingendolo di lato e iniziando a inerpicarsi su per il tozzo campanile che i padri della città meditavano di sostituire con qualcosa di più moderno. Questa volta Federico arrivò primo e dovette addirittura aiutare il fratello ferito che cominciava a sentire la stanchezza nelle ossa. Erano entrambi senza fiato e, mentre si riprendevano, rimasero a guardare la loro città, tranquilla e silenziosa nella luce madreperlacea dell’alba.
«È bella la nostra vita, fratello», ammise Federico con inusuale solennità.
«La migliore», concordò Ezio. «E speriamo non cambi mai.»
Rimasero entrambi in silenzio, nessuno dei due voleva guastare la perfezione di quell’attimo, ma dopo un po’ Federico disse: «Speriamo di non cambiare mai neppure noi, fratellino. Vieni, dobbiamo tornare. C’è ancora il tetto del nostro palazzo. Speriamo che nostro padre non sia rimasto alzato tutta la notte, o saremo nei guai. Andiamo». Si diresse al bordo del campanile per ridiscendere sul tetto, ma si fermò vedendo che Ezio era rimasto dov’era. «Che c’è?» «Aspetta un momento.» «Cosa stai fissando?» gli chiese Federico, tornando dal fratello. Seguì lo sguardo di Ezio, poi il suo viso si aprì in un ghigno. «Birichino! Non starai pensando di andare là ora, non è vero? Lascia dormire quella povera ragazza!» «No... credo sia ora che Cristina si svegli.»

Ezio aveva conosciuto solo da poco Cristina Vespucci, ma i due giovani erano già inseparabili, anche se i genitori li consideravano ancora troppo giovani per formare un legame serio. Ezio non era d’accordo, ma Cristina aveva solo diciassette anni e la sua famiglia si aspettava che il giovane frenasse le sue abitudini da scapestrato prima di cominciare a considerarlo con maggiore comprensione. Naturalmente ciò era riuscito
solo a renderlo più impetuoso. Stava bighellonando con Federico nel mercato principale dopo avere acquistato alcuni ninnoli per l’onomastico della sorella, osservando le belle fiorentine con le loro accompagnatrici che volteggiavano di bancarella in bancarella, esaminavano qui un pizzo, là nastri e rotoli di seta. Una ragazza spiccava tra le amiche, bella e aggraziata come mai. Il giovane non avrebbe più potuto scordare quel giorno, il giorno in cui per la prima volta aveva posato gli occhi su di lei.
«Oh», aveva esclamato senza volere. «Guarda! È bellissima! »
«Allora», aveva detto il fratello sempre molto pratico, «perché non vai a salutarla?»
«Cosa?» aveva domandato Ezio. «E dopo averla salutata, che faccio?»




«Ecco, potresti cercare di parlare con lei. Cosa hai comperato tu, cosa ha acquistato lei, non importa. Vedi, fratellino, la maggior parte degli uomini ha così tanta paura delle belle ragazze che chiunque riesca a trovare il coraggio di chiacchierare acquisisce un immediato vantaggio. Cosa? Pensi che non
vogliano essere notate, che non desiderino una piacevole conversazione con un uomo? Certo che lo vogliono! In ogni caso, non sei brutto e sei un Auditore. Provaci, intanto io distrarrò
la sua accompagnatrice. A pensarci bene, nemmeno lei è da buttare.»

Ezio rammentò come, rimasto solo con Cristina, immobile, incapace di parlare, si fosse lasciato ammaliare dalla bellezza dei suoi occhi scuri, dei suoi lunghi e morbidi capelli ramati, del suo nasino all’insù... Lei lo aveva fissato. «Che c’è?» aveva chiesto. «Che volete dire?»
«Perché ve ne state semplicemente lì?»
«Oh... ehm... perché volevo chiedervi una cosa.»
«E cosa mai sarà?»
«Come vi chiamate?»
Lei aveva alzato gli occhi al cielo. Dannazione, aveva pensato Ezio, ha già sentito tutto questo prima. «Non ho un nome che avrete mai bisogno di usare», aveva risposto, allontanandosi. Ezio l’aveva fissata per un momento, poi l’aveva seguita.
«Aspettate!» aveva gridato, raggiungendola, più spompato che se avesse corso per un miglio. «Non ero pronto. Avevo pianificato di essere affascinante, e garbato e spiritoso! Non volete darmi una seconda possibilità?»
Lei aveva girato la testa verso di lui senza rallentare il passo, ma gli aveva rivolto l’ombra di un sorriso. Ezio era disperato, ma Federico, che aveva osservato la scena, l’aveva incitato dolcemente: «Non cedere adesso! Ho visto che ti ha sorriso! Si ricorderà di te».
Rincuorato, Ezio l’aveva seguita, discretamente, badando a che lei non se ne accorgesse. Tre o quattro volte aveva dovuto riparare dietro una bancarella del mercato o, dopo che lei era uscita dalla piazza, tuffarsi in un androne, ma era riuscito a pedinarla con successo fino alla porta del palazzo della sua famiglia, dove un uomo, che lui aveva riconosciuto, le aveva bloccato la strada. Ezio era indietreggiato. Lei aveva guardato l’uomo con rabbia. «Te l’ho già detto, Vieri, non mi interessi. E ora, per favore, fammi passare.»

Ezio, nascosto, restò senza fiato. Vieri de’ Pazzi! Naturalmente!
«Ma, signorina, io sono interessato. Davvero molto interessato », aveva ribattuto Vieri.
«Allora mettiti in coda.»
Lei aveva tentato di passare oltre, ma lui le si era messo davanti. «Non ci penso affatto, amore mio. Sono stufo di aspettare che tu apra le gambe di tua spontanea volontà.» L’aveva afferrata rudemente per il braccio, attirandola a sé, cingendola con l’altro braccio, mentre lei si dibatteva per liberarsi.
«Non sono sicuro che tu abbia compreso il messaggio», aveva improvvisamente detto Ezio, facendosi avanti e fissando Vieri negli occhi. «Ah, il cucciolo Auditore. Cane rognoso! Che diavolo vuoi?Va’ all’inferno.» «E buon giorno anche a te, Vieri. Mi spiace intromettermi, ma ho l’impressione che tu stia rovinando la giornata di questa signorina.»
«Oh, davvero? Scusami, carissima, mentre le do di santa ragione a questo arricchito.» Con queste parole Vieri aveva spinto via Cristina e si era lanciato contro Ezio con il pugno destro. Ezio l’aveva schivato facilmente spostandosi di lato e facendo cadere lungo disteso nella polvere Vieri, trascinato in avanti dall’impeto dell’attacco.









«Ne hai abbastanza, amico?» gli aveva chiesto in tono sardonico. Ma Vieri era immediatamente balzato in piedi e si stava avvicinando a lui con furia, agitando i pugni. Era riuscito a colpire duramente Ezio alla mascella, ma il giovane aveva poi parato un gancio sinistro, riuscendo a sua volta a colpire l’avversario con un pugno allo stomaco, quindi, mentre Vieri si piegava in due, con uno alla mascella. Ezio si era poi girato verso Cristina, per controllare che stesse bene. Senza fiato, Vieri era indietreggiato, ma la mano era corsa al pugnale.
Cristina aveva notato il movimento e aveva lanciato un involontario grido d’avvertimento, mentre Vieri puntava il pugnale contro la schiena di Ezio, il quale, avvertito dal grido, si era girato appena in tempo e, afferrato con forza il polso di Vieri, gli aveva fatto cadere l’arma. I due giovani erano rimasti
uno di fronte all’altro, ansanti. «È questo quanto di meglio sai fare?» aveva sibilato Ezio tra i denti.
«Chiudi la bocca o ti ucciderò, perdio!»
Ezio aveva riso. «Immagino che non dovrei sorprendermi nel vederti tentare di importi a una bella ragazza che evidentemente ti ritiene una palla di sterco, visto il modo in cui tuo padre cerca di imporre i suoi interessi bancari a Firenze!» «Stupido! È tuo padre quello che ha bisogno di una lezione di umiltà!»
«È ora che voi Pazzi smettiate di diffamarci. D’altro canto, voi sapete parlare, ma non lottare.»
Il labbro di Vieri sanguinava copiosamente e se lo era asciugato con la manica. «Pagherete per questo, tu e tutta la tua stirpe. Non me ne dimenticherò, Auditore!» Aveva sputato ai piedi di Ezio, si era chinato per raccogliere il pugnale, poi si era voltato ed era corso via. Ezio l’aveva guardato allontanarsi. Ricordò tutto questo, mentre, sul campanile della chiesa, guardava verso la casa di Cristina. Ricordò l’euforia che aveva provato, quando si era girato verso di lei e aveva notato un nuovo calore nei suoi occhi, mentre lo ringraziava. «Stai bene?» aveva chiesto, passando al tu. «Adesso sì, grazie a te.» Aveva titubato, la voce ancora tremante per la paura. «Mi avevi chiesto come mi chiamavo, ecco, sono Cristina. Cristina Vespucci.»

Ezio le fece un inchino. «Sono onorato di conoscerti, signorina Cristina. Ezio Auditore.»
«Conosci quell’uomo?»
«Vieri? Le nostre strade si sono incrociate di tanto in tanto. Ma le nostre famiglie non hanno alcun motivo per trovarsi simpatiche.»
«Non voglio più vederlo.»
«Se dipendesse da me, non ti capiterebbe più.»
Lei aveva sorriso timidamente, poi aveva detto: «Ezio, hai tutta la mia gratitudine, e per questo motivo, sono pronta a darti una seconda possibilità, dopo il tuo brutto esordio!» Aveva riso, poi, prima di scomparire nel suo palazzo, l’aveva baciato sulla guancia.
La piccola folla che si era radunata aveva applaudito Ezio.
Lui si era inchinato, sorridendo, ma mentre si voltava, aveva capito che forse si era fatto una nuova amica, ma di sicuro un implacabile nemico.
«Lascia dormire Cristina», ripeté Federico, strappando Ezio dalle sue fantasticherie.
«Dopo ne avrà tutto il tempo», replicò lui. «Devo vederla. »
«D’accordo, se proprio devi, cercherò di coprirti con nostro padre. Ma stai attento, gli uomini di Vieri potrebbero essere ancora in giro.». Con queste parole, Federico scese dal campanile e, dal tetto, saltò su un carro da fieno fermo nella strada che portava a casa sua.
Ezio lo guardò andare via, poi decise di imitare il fratello.
Il carro da fieno pareva molto lontano, ma ricordandosi di ciò che gli era stato insegnato, regolò il respiro, si calmò e si concentrò. Poi volò in aria, facendo il più grande balzo della sua vita.
Per un attimo temette di avere valutato male il bersaglio, ma soffocò il panico e atterrò incolume nel fieno. Senza fiato, ma rallegrato dal successo, Ezio saltò in strada.








Il sole stava sorgendo sopra le colline a oriente, ma in giro vi era ancora poca gente. Ezio stava per avviarsi verso il palazzo di Cristina, quando udì risuonare dei passi e, per nascondersi, indietreggiò nell’oscurità del portico della chiesa e trattenne il fiato. Da dietro l’angolo apparvero nientemeno
che Vieri e due guardie dei Pazzi.
«Meglio rinunciare, capo», disse la guardia più anziana.
«Saranno ormai lontani.»
«So che sono qui da qualche parte», sbottò Vieri. «Posso praticamente fiutarli.» Lui e i suoi uomini fecero il giro della piazza della chiesa, ma non sembravano volersi allontanare.
La luce del sole stava riducendo le ombre. Ezio strisciò cautamente nel carro da fieno e rimase nascosto lì per quello che gli parve un’eternità, impaziente di riprendere il cammino. Una volta Vieri gli passò tanto vicino che Ezio poté davvero sentire il suo odore, ma alla fine fece segno ai suoi uomini di
proseguire. Ezio rimase immobile per un po’, poi scese dal carro ed emise un lungo sospiro di sollievo. Si spolverò e coprì rapidamente la breve distanza che lo separava da Cristina, pregando che nessuno in casa si stesse già svegliando. Il palazzo era ancora silenzioso, anche se Ezio immaginò che la servitù stesse accendendo i fuochi in cucina. Sapeva dove era la finestra di Cristina e così lanciò una manciata di ghiaia contro le ante. Il rumore gli parve assordante e attese con il cuore in gola. Poi le due ante si aprirono e lei si affacciò. La camicia da notte svelava le deliziose forme del suo corpo facendolo palpitare di desiderio.
«Chi è?» chiese sottovoce.
Lui indietreggiò, affinché lei potesse vederlo. «Sono io!»
Cristina sospirò, anche se non in modo scortese. «Ezio! Avrei dovuto saperlo.»
«Posso salire, mia colomba?»
Lei lanciò un’occhiata dietro la spalla prima di rispondere in un sussurro: «Va bene. Ma solo per un minuto».

«Non mi occorre nulla di più.»
Lei sorrise. «Davvero?»
«No... scusa... non intendevo così. Lascia che ti mostri...»
Guardandosi attorno per assicurarsi che la strada fosse deserta, vide un punto d’appoggio in uno dei grandi anelli di ferro per legare i cavalli fissati nella parete in pietra della casa e si sollevò, trovando facili appigli per i piedi e le mani nella muratura a bugnato rustico. In un batter d’occhio si era issato sopra
la balaustra e lei era nelle sue braccia.
«Oh, Ezio!» sospirò mentre si baciavano. «Guarda la tua testa. Che cosa hai combinato questa volta?»
«Non è niente. Solo un graffio.» Ezio s’interruppe, sorridendo.
«Forse ora che sono quassù, potrei anche entrare?» domandò gentilmente.
«Dove?»
Con fare innocente, rispose: «Nella tua camera da letto, naturalmente».
«Ecco, forse... se sei sicuro di aver bisogno di un solo minuto... »
Abbracciati, attraversarono la porta a due ante ed entrarono nella calda luce della camera di Cristina.
Un’ora più tardi vennero svegliati dalla luce del sole che entrava dalle finestre, dagli animati rumori dei carri e della gente in strada e, cosa peggiore di tutte, dalla voce del padre di Cristina che apriva la porta della sua camera da letto. «Cristina», stava dicendo. «È ora di alzarsi, ragazza! Il tuo precettore arriverà da un momento all’altro... Che diavolo? Figlio di puttana!»
Ezio baciò rapidamente ma con forza Cristina. «Penso sia ora che me ne vada», disse, raccogliendo i vestiti e lanciandosi verso la finestra. Scese lungo il muro e si stava rivestendo, quando Antonio Vespucci apparve sul poggiolo. Era infuriato.
«Perdonate, messere», si scusò Ezio.
«Altro che ‘perdonate, messere’», gridò Vespucci. «Guardie! Guardie! Rincorrete quella cimice! Portatemi la sua testa! E voglio anche i suoi coglioni!»
«Ho detto che mi dispiace...» iniziò a dire Ezio, ma le porte del palazzo si stavano già aprendo e le guardie del corpo di Vespucci si precipitarono fuori, le spade sguainate.


Più o meno vestito, Ezio si mise a correre lungo la via, scansando carri e facendosi strada a spintoni tra i cittadini, ricchi uomini d’affari rigorosamente in nero, mercanti in marrone e rosso, popolino in casacche cucite in casa e, una volta, una processione religiosa in cui andò a sbattere tanto inaspettatamente che per poco non fece cadere la statua della Vergine portata in spalla da monaci incappucciati. Alla fine, dopo essersi tuffato in vicoli e avere scavalcato muri, si fermò e tese l’orecchio. Silenzio.
Non si sentivano più nemmeno le grida e le imprecazioni della gente. Per quello che riguardava le guardie, le aveva seminate, ne era sicuro.
Sperava solo che il signor Vespucci non l’avesse riconosciuto. Cristina non l’avrebbe tradito, ne era certo. Inoltre sapeva come tenere sotto scacco il padre, lucrando sull’adorazione che provava per lei. Anche se avesse scoperto chi era, rifletté Ezio, non sarebbe stato un guaio. Suo padre dirigeva una delle più grandi banche della città, che un giorno sarebbe potuta diventare più grande di quella dei Pazzi o addirittura,
chi poteva dirlo, di quella dei Medici. Tornò a casa passando per i vicoli. La prima persona che incontrò fu Federico che lo fissò seriamente e scosse il capo. «Ti aspetta una ramanzina», annunciò. «Non dire che non ti avevo avvertito.»


Se avete trovato qualche parolaccia avvertitemi che le cambio subito,ok?

 
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ciao stronzi
view post Posted on 18/3/2010, 14:09




bello!solo che non lo letto tutto!
 
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supergogeta99
view post Posted on 18/3/2010, 14:27




sei di nuovo tu sir!!!!!!!!
SPOILER (click to view)
non si arrende mai!!!!!!!!!!!!
 
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ciolini1
view post Posted on 18/3/2010, 17:01




è peggio di un leone con la carie ai denti
 
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supergogeta99
view post Posted on 18/3/2010, 17:05




l'hanno gia bannato?se non l'avete bannato,bannateloooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!
 
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ciolini1
view post Posted on 18/3/2010, 17:07




quoto
 
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Kratos9
view post Posted on 18/3/2010, 19:04




Va be, vi dispiace non concentrarvi su questa ennesima testina di ***** e commentarmi il racconto... ne ho bisogno!
 
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supergogeta99
view post Posted on 19/3/2010, 07:33




si è bello solo che mi secca a leggerlo tutto e hai fatto degli errori grammaticali
 
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7 replies since 17/3/2010, 17:05   428 views
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